“Emerse che il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo“, ex direttore generale operazioni di Autostrade per l’Italia, “mi rispose: “ce la autocertifichiamo“. Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”. Sono le parole pronunciate lunedì da Gianni Mion, ex amministratore delegato di Edizione – la holding della famiglia Benetton, che controllava Autostrade attraverso Atlantia – nella sua testimonianza al processo di primo grado in corso a Genova per il disastro del ponte Morandi, che il 14 agosto del 2018 crollò uccidendo 43 persone. Rivelazioni-bomba che il manager aveva già fatto in fase di indagini, sentito dal pm Massimo Terrile nel luglio 2021, in un colloquio rivelato per la prima volta dal Fatto a dicembre dello stesso anno.

Mion è uno testimoni chiamati a deporre dalla Procura. Le sue parole si riferiscono a una riunione tenuta il 16 settembre 2010, a cui parteciparono Mollo, l’ex amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci (entrambi imputati), Gilberto Benetton (ex vicepresidente di Edizione, morto nell’ottobre 2018), i membri del collegio sindacale di Atlantia e – secondo il ricordo di Mion – tecnici e dirigenti di Spea Engineering, la società controllata da Autostrade che fino al 2019, in pieno conflitto d’interesse, si occupava delle manutenzioni e dei controlli sulla rete. Dopo le dichiarazioni del teste, uno degli avvocati dei 59 imputati – Giorgio Perroni, che difende l’ex direttore del Primo tronco autostradale, Riccardo Rigacci – ha chiesto di sospendere l’esame di Mion e di trasmettere gli atti alla Procura, in quanto avrebbe reso dichiarazioni auto-incriminanti. In questo modo, però, la deposizione – dal valore fortemente incriminante nei confronti del vecchio management di Aspi – diventerebbe inutilizzabile. Il collegio giudicante presieduto da Paolo Lepri si è riservato di decidere lasciando proseguire l’esame.

Subito prima di Mion aveva testimoniato Roberto Tomasi, attuale amministratore delegato di Aspi (nel frattempo tornata sotto il controllo pubblico con l’acquisizione da parte di una cordata guidata da Cassa depositi e prestiti). Ad ascoltarlo, in aula, c’era il suo predecessore Castellucci. Tomasi ha raccontato come dopo il suo arrivo al timone della società (nel febbraio 2019) i report sulle infrastrutture redatti da Spea fossero stati man mano affidati a soggetti esterne al gruppo (Proger e Speri) per una validazione. Solo allora, ha spiegato, “ci rendemmo conto che in precedenza erano stati attribuiti coefficienti di rischio ad alcune opere decisamente inferiori allo stato effettivo dell’infrastruttura stessa”. In particolare, ha detto, “nel 2020 abbiamo visto un incremento dei coefficenti di rischio anche di oltre il 200% rispetto a quelli rilevati da Spea, mentre nel 2019 era del 50%. I comportamenti di alcuni dipendenti di Spea erano inaccettabili. Non la ritenevamo affidabile, perciò ci rivolgemmo all’esterno”.

Secondo Mion “fu fatto un errore da parte di Aspi quando acquistò Spea, la società doveva stare in ambito Anas o del ministero, doveva rimanere pubblica. Il controllore non poteva essere del controllato”. Dopo le intercettazioni e il crollo nella galleria Bertè (A26, il 30 dicembre 2019, ndr), ha aggiunto, “avevo la sensazione che nessuno controllasse nulla. La mia idea è che c’era un collasso del sistema di controllo interno e esterno, del ministero non c’era traccia. La mia opinione, leggendo ciò che emergeva, è che nessuno controllasse nulla”.

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